WRITING "DIFFERENZE DI GENERE NELL'AMBIENTE DI LAVORO: OPPORTUNITÀ O DISCRIMINAZIONE?" RACCONTI DA VOTARE

   


FRESIE PROFUMATISSIME, RANUNCOLI E TULIPANI BIANCHI

Quella mattina, sotto un cielo grigio di inizio Novembre, una tristezza latente velava il mio cuore, quasi un presagio di ciò  che avrei vissuto dopo una decina di minuti.  Sensazioni di disagio mi accompagnavano nel mio percorso a piedi verso l’ufficio, mie compagne di viaggio a Milano, città alla quale non riuscivo ad affezionarmi. 
Arrivata in ufficio salutai Angela distrattamente, stavo pensando a come fosse il cielo in Abruzzo, così grigio? O forse di un bell’azzurro, terso, pensavo alle persone che stavano raccogliendo le olive sui verdi campi punteggiati da ulivi carichi di frutti…
Quasi di soprassalto tornai in me, la voce di Angela in risposta al mio saluto non aveva lo stesso tono del giorno precedente, quando, con grande gioia ma sottovoce,  guardandosi prima intorno, durante la pausa pranzo in mensa, mi aveva comunicato la bella notizia: “Sono incinta!” e insieme avevamo brindato alla vita!  Finalmente una bella sorpresa dopo tanto soffrire…  
E così quella mattina alzai lo sguardo e lei era lì: testa bassa, volto pallido e inumidito dalle lacrime. La presi per mano e ci dirigemmo nella fredda e rumorosa stanza dei server. “Ho detto alla capa che sono incinta” mi disse, ed io, ingenuamente, esclamai “Ti ha fatto gli auguri? Ma …perché piangi?”, “No…” rispose Angela ancora singhiozzando “Mi ha umiliata dandomi della ingrata e della furba opportunista…” “Le abbiamo dato fiducia quando le abbiamo rinnovato il contratto e riguardo ai suoi progetti futuri quanto ad eventuali maternità, la sua risposta … è stata …una presa in giro” aveva esclamato la responsabile in preda all’ira. 
Sempre più incredula abbracciai Angela, le sue lacrime bagnarono anche il mio volto, quasi un segno della profonda empatia che stava prendendo forma oltre i confini dei  nostri cuori. Le porsi il  mio fazzolettino ricamato, un regalo di mia nonna, un cimelio che nei momenti di sconforto mi regalava sempre un senso di affettuosa sicurezza.
Alcuni mesi prima, durante il colloquio per il rinnovo del contratto, la responsabile, scrutando il curriculum di Angela esclamò “Con un curriculum così importante e fresca di Master non sarà così incosciente da mettersi a far figli…”, abbassò il mento  guardandola fuori dalle lenti degli occhiali leggermente scivolati sul naso, quasi a cercare di carpire segreti nello sguardo di Angela, con la furbizia di chi vuole avere una risposta evitando di compromettersi ponendo in modo diretto una domanda poco delicata.  Angela aveva risposto “Non avrò bambini, me l’ha confermato il mio medico”. 
Sei mesi prima era morta la madre di Angela, l’annuncio dell’arrivo di una nuova vita aveva fatto di nuovo palpitare di gioia il suo cuore, un sentimento di cui aveva quasi dimenticato il sapore; la carica emotiva generata da quell’emozione  forte e positiva aveva spazzato, come d’incanto, le ombre di tristezza che l’esperienza del lutto aveva impresso nella sfera delle sue emozioni... Un misto di incredulità e sorpresa le aveva regalato la leggerezza del cuore di una bambina stupita, si sentiva protagonista di un miracolo, lei, sì, …proprio lei… Anni addietro, un medico le aveva annunciato, con tono freddo e sentenzioso, che non avrebbe mai avuto figli a causa di un intervento chirurgico che le aveva danneggiato l’endometrio. 
Angela fu licenziata poco dopo il suo rientro dalla maternità, poi la persi di vista per un po’. 
La risentii dopo qualche anno, ero sul treno, era una soleggiata domenica di Marzo e squillò il telefono. Mi parlò con entusiasmo del suo nuovo lavoro, creativo e interessante, con tre giorni a settimana di telelavoro.


“Lavoro per un progetto finanziato dall’Unione Europea coordinato da una università svedese, la mia azienda è partner. Oltre ad un contributo tecnico posso dare al progetto anche un contributo nell’ambito dei contenuti, grazie alle esperienze della mia quotidianità. Lavoro per lo sviluppo di una piattaforma e-learning, tra i partner ci sono anche delle università, la piattaforma eroga corsi a distanza per mamme e lavoratrici, per supportarle, sia nel percorso di studi universitari sia nella formazione continua per il lavoro”. Poi aggiunse, con tono allegro e spensierato: “Sai, sono di nuovo incinta!”. Col cuore in gola per l’emozione ma, al contempo, facendo memoria di quanto successo in passato, preoccupata le chiesi “E il tuo capo? ”
“Il giorno dopo averglielo comunicato” rispose con tono sereno e rilassato “ho trovato un mazzo di fiori sulla mia scrivania, fresie profumatissime, ranuncoli e tulipani bianchi accompagnati da un bigliettino - Auguri Angela, si goda la maternità! Tutto il resto può attendere! Con stima”.
Andò a ringraziarlo, il capo ordinò due caffè e dei biscotti e le comunicò la possibilità di continuare con il telelavoro o di scegliere un part time qualora ne avesse avuto la necessità e poi, congedandola,  le confidò timidamente “Anch’io ero uno di quei capi che licenziava le lavoratrici intenzionate a diventare mamme, poi qualcosa è cambiato…”, abbassò gli occhi e il tono della voce, e continuò “Due anni fa abbiamo rischiato di perdere nostro figlio per una grave malattia, oggi sta bene…ma io sono diverso, ho capito tante cose…Si goda la sua maternità Angela, tutto il resto può aspettare, tutto il resto …conta meno, auguri! E complimenti per il suo coraggio! Lo conservi sempre…lo custodisca gelosamente”. 



Rigenerazione


Storicamente il tema della professionalità femminile ovvero del termine “donna” non è contemplato nelle prime Costituzioni se non “indirettamente, precisando che è buon cittadino colui il quale è buon padre e buon sposo” e le ragazze sono preparate a diventare angeli del focolare. 
Sono gli anni tra il 1970 e il 1980, Margaretha passeggia lungo il viale  della città che l’aveva accolta, amorevolmente, alcuni anni prima insieme alla sua famiglia. Un viale profumato dai pini di Aleppo posizionati ai margini del marciapiede dove proiettano l’ombra delle prime ore di un pomeriggio assolato. E’ una bella giornata di fine estate,il calore e il colore del sole imperversa sulla città, rendendola sonnolenta. Il traffico scorre veloce ma calmo con il rumore dei motori delle macchine attutito dai riflessi assonnati degli automobilisti.Ad un tratto lo sguardo di Margaretha viene rapito dai colori di un manifesto che indica la procedura per un concorso pubblico presso un’azienda nella quale, leggendo meglio quanto descritto, si richiedono profili professionali di varia tipologia, da destinare in alcune zone di Italia, tra le quali la regione Abruzzo,ed in particolare Pescara e Chieti.In quel tempo non esistevano agenzie interinali, internet, i PC erano di là da venire come il mondo social: c’erano i primi accenni di elaborazioni dai computer ma soltanto nelle città più avanzate dell’Italia.Questa carenza “tecnologica” non è molto avvertita dalla giovane laureata perché Margaretha è una giovane laureata in Architettura, abilitata all’esercizio professionale,consapevole delle proprie capacità:un Architetto ancora in fase embrionale ma già in una fase avanzata delle sue conoscenze.L’amore per l’Architettura si era cresciuto con lei che nella fase adolescenziale era attratta dalla forma urbana della città e dalle forme del paesaggio (certo da bambina non poteva capire il perché di questa sua attrazione). A ciò si univa anche l’aspetto sociale riferito ai diversi rapporti umani e alle diverse relazioni interpersonali intervenute negli anni, frutto del suo continuo girovagare con la famiglia in lungo e in largo, al nord e al sud di quella meravigliosa terra che è l’Italia. 

Margaretha legge attentamente il bando di concorso, appuntandosi gli aspetti più salienti: ahimè, il cellulare non è ancora presente nel mercato per scattare una fotografia del bando e rileggere il tutto a casa,con calma; trascrive le indicazioni contenute nel manifesto e soprattutto verifica la scadenza.In cuor suo sente un brivido: la proposta di un lavoro specifico,già presente nella sua mente e che rappresenta il sogno. La caparbietà è un aspetto molto importante per capire il carattere della ragazza volto, fin dall’infanzia,a dimostrare la volontà di raggiungere un obiettivo più volte ricercato: Margaretha ha lottato in famiglia per poter frequentare una scuola superiore dal taglio genericamente “maschile”: il liceo scientifico nei primi anni ’60 era frequentato per la maggior parte da alunni, “maschietti”, perché indirizzava verso studi di tipo tecnico-scientifico e le professioni di medico, ingegnere, matematico, fisico. Era un scuola interamente da riformare!La preparazione per il concorso è molto pressante, dura ma la scommessa è con se stessa e con le “alchimie” presenti nei concorsi. Le tematiche da affrontare e studiare sono quelle attuali: urbanistica, paesaggio, ambiente unite alla legislazione nazionale e regionale.Il concorso,oltre ai titoli, comporta una prova scritta che bisogna superare con un voto minimo (42) e una prova orale di approfondimento degli argomenti. Superata la prova scritta in maniera brillante,la prospettiva di vincere si fa strada in lei ma, in cuor suo, Margaretha ha timore di non riuscire a superare la prova orale perché il “blocco” davanti ad una Commissione di esame è sempre in agguato, Commissione, tra l’altro, composta da soli esperti di genere “maschile”(è solo a partire dal dlg.546/1993 che la normativa statale prevede la presenza femminile nelle Commissioni di esame). Anche la seconda prova è superata e il concorso è vinto: Margaretha è prima. L’assunzione avviene in tempi brevi e la ragazza, felice di essere stata assunta per quell’incarico così importante, si presenta il primo giorno di impiego indossando un tailleur pantalone di colore grigio,tipico abbigliamento di quegli anni nei quali la donna, presente nei luoghi di lavoro con grande rappresentanza maschile,deve avere un aspetto “maschile” per poter dimostrare di essere all’altezza della propria professione. La problematica che emerge immediatamente riguarda la differenza,la discriminazione con gli altri colleghi di pari livello e mansioni, a livello stipendiale. Infatti, Margaretha si accorge di avere una retribuzione nettamente inferiore a quella degli altri colleghi “maschietti” e salta fuori la “discriminazione di genere”. Questo è un argomento molto conosciuto dalla ragazza che, essendo a conoscenza della suddivisione culturale e storica dei ruoli ricoperti dagli uomini e dalle donne e del divario esistente nel lavoro tra un uomo e una donna, non può capacitarsi del fatto che, pur svolgendo il proprio lavoro con dedizione e professionalità, esista tale diseguaglianza. Ma le donne, si sa, sono in grado di rimettersi in gioco e qualche volta lo “zampino della gatta” e l’aiuto della “fortuna” aiuta a rimuovere gli ostacoli. Si presenta una grossa problematica all’interno dell’Azienda: esiste una buona possibilità di partecipare ad un evento di livello europeo ma c’è da svolgere, prioritariamente, una indagine delicata e carente di qualsiasi elemento conoscitivo, che permetta una analisi qualificata e conduca a obiettivi certi.Il Direttore dell’Istituto avverte l’esigenza di affidare tale studio ad una persona con una “capacità” in più, che vada oltre alla professionalità tecnica tout-court e qui interviene la “professionalità al femminile” ovvero la risorsa “donna”.Infatti è proprio dell’essere donna la capacità di risolvere problemi in diversi ambiti poiché la donna, con la sua “esistenza” si è trovata ad assumere ruoli diversificati e spesso a fare delle scelte: la carriera o la famiglia, intendendo quest’ultima come cura dei figli, degli anziani, quindi lavoratrice in casa e fuori. Grazie a questa maturità raggiunta, la donna si è evoluta attraverso l’istruzione che le ha dato la possibilità di accedere a ruoli, un tempo stabiliti e pensati solo per l’uomo. E’ inutile specificare che il finale di questa storia è naturalmente “rosa” perché Margareta ha saputo “rigenerarsi” affrontando, come ogni donna è in grado di fare,le tematiche proposte e a risolverle, grazie alle competenze, alle professionalità maturate e grazie anche al legame con le problematiche legate alla quotidianità che le donne riescono a ricucire più di altri con l’intuizione e la dinamicità tipicamente femminile.


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Fili


Sono in ritardo. Un’ora di tempo per trovare la scuola dell’infanzia dove porterò mia figlia, capire come fare l’iscrizione, e poi via al lavoro. Entro nell’atrio della scuola. Su un tavolo ci sono dei moduli, ne prendo uno mentre il mio sguardo cerca un essere che sia alto più di un hobbit. Un uomo arriva: “Salve, qui ho tutte le informazioni?”. “Si, e qui è la lista del materiale utile per i bambini”. Da un cassetto  tira fuori una fotocopia: scorro velocemente le parole, alcune misteriose, con specifiche di cartelline e fogli trasparenti da far impallidire un responsabile acquisti.Leggo l’ultima riga: grembiule di cotone rosa per le femmine e azzurro per i maschi. Rileggo. “Scusi, ma come mai qui c’è scritto che…” L’uomo mi interrompe: “Scusi ho da fare, per altre informazioni puo’ recarsi in segreteria”. “Si, ma anche io devo lavorare e…” Il tipo è già sparito dietro una porta tutta colorata a fiori. Rileggo. E’ come una brutta favola, immaginare mia figlia tutta di rosa quando il suo colore preferito è il blu. Fiduciosa nel sistema scolastico italiano mi presento all'appuntamento di orientamento con  genitori. Siamo tutte attente, tutte mamme in effetti, alle spiegazioni: “…e poi grembiule rosa a righine per le femmine e azzurro per i maschi”. Ho una nuova specifica, le righine, il mio pensiero si è per un attimo abbarbicato a quelle tenere righine che intarsiano il tessuto di un grembiule ben fatto di cotone... rosa! L’effetto consolatorio è durato poco. A quanto pare le linee guide sull’abbattimento della differenza di genere non sono giunte. Ed eccomi in piedi a far notare l’incongruenza del sistema educativo che abbraccerà la mia piccola figlia. “Ma che problema c'è? Non vede come sono carine?”. La preside che punta sull’effetto materno è la prima a rispondermi, in maniera bonaria. Mi accorgo che sono tesa: “Non capisco, stiamo parlando di bambole di pezza da vestire? Perchè creare una barriera tra i maschi e le femmine, perchè non utilizzare un colore unico per tutti o tutti colori per esempio”.  Ora è il segretario che punta diritto il suo naso verso di me mentre mi risponde:  “Ma sono differenti, che male c'è? È naturale!”. Il suo naso un po’ mi inquieta, ma lo affronto con calma. “Si, lo so che sono differenti di sesso, come lo sono nell'altezza, e nel colore dei capelli, perchè esaltare proprio la differenza del sesso?”. Il naso che ho sotto osservazione varia un po’ nel colore, forse anche nello spessore, visto che ora inizia a sbuffare. “Ma signora, che pensa? Sono bimbi innocenti! Suvvia, che esagerazione!”. La frase è accompagnata da un dondolio della testa rivolto alle altre genitrici. Sento che sto passando per una fobica del sesso. Qualcuno sta guardando i miei anfibi. Sono fierissima dei miei anfibi marroni. Ricomincio da capo, parlando lentamente: “Se i bimbi vestono azzurro e le bimbe rosa – pausa, respiro, e tocco - forse c'è un colore maschile ed uno femminile?” Un brusio: alle domande le maestre non possono resistere. “Ma no! Che dice! é un colore per un altro!”. “Allora grembiuli azzurri per le bimbe e rosa per i maschi!”, ribatto. Il naso del segretario ha ripreso vita ed ora parla al soffitto: “Bè no, non sta bene”. “Certe cose stanno bene per i maschi e certe cose stanno bene per le femmine? Non capite che messaggio date? Ai maschi è proibito il rosa? Allora se ci sono dei colori maschili, ci saranno anche dei giochi femminili, e sport maschili, e lavori femminili, e perchè no, che male c'è mettere sul capo il velo, sono così carine, non trovate...?”. L’ho detto. Vedo il vuoto nelle loro menti. Vogliono forgiare piccoli esseri e per primi non sanno  interpretare la realtà che li circonda, non capiscono la forza dei simboli che utilizzano. Penso alla Belotti, penso alla parità di genere, e mi ritrovo a dover lottare per mia figlia affinchè possegga tutti i colori. La preside mi guarda in modo strano, nuovo, e mi domanda tendenziosa: “Lei che lavoro fa?”. “Sono  imprenditrice”. “Ah, infatti, mi sembrava una persona, diciamo, un po’ originale. Sicuramente lavorerà tanto, lasci a noi queste cose, che ci intendiamo di bambini ed educazione”. La mia mente si illumina: sono una donna, che porta anfibi, e che lavora troppo. Ergo non sono una donna simile a loro. Forse non sarò nemmeno propriamente donna. La luce nella mia mente ora è sempre più forte, e appare una figura, simile a un santino: è la copertina di Dalla parte delle bambine. Mi alzo, scintillante, le parole mi escono fluenti: “Mia figlia avrà grembiuli colorati, e sarà libera in un mare di fili vischiosi: il velo nero che ricopre le donne, il velo bianco della sposa vergine, la lettera scarlatta delle adultere; i colori carichi di simbolismo disegnano gabbie di fili invisibili. Non impiglierò mia figlia in questi fili”. La mia aureola deve essere accecante perchè mi guardano tutti in modo strano e silenzioso. Sono in ritardo, e corro via, a cavallo dei miei anfibi luccicanti.  





Opportunità e genere: quale uguaglianza?



“È dal lavoro stesso che le persone costruiscono la propria dignità e
 la propria libertà, e non certo dalla negazione dei propri diritti e della propria identità” 
Valeria Fedeli, Ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca

“Uomini e donne sono uguali”, questa è la frase che sentiamo spesso gridare dai movimenti di protesta a sfondo femminista sempre più numerosi e che rivendicano anni di abusi, violenze e silenzio di un mondo al maschile. Negli anni, le proteste hanno sempre fatto leva sul principio di uguaglianza considerando le differenze come qualcosa di negativo; per questo oggi sembra necessario chiedersi se le donne debbano essere realmente uguali agli uomini per avere le loro stesse opportunità in ambito lavorativo. 
Le differenze sono sempre un qualcosa di negativo? Perché è così sbagliato distinguersi dagli uomini in qualcosa? perché l'uomo è il solo modello al quale fare riferimento? Perché le donne devono essere uguali a qualcuno e non a sé stesse?
Queste, come molte altre domande, aleggiano su di una società in continuo cambiamento, dove il mondo del lavoro diviene sempre più impermeabile e necessita di reali cambiamenti per rinnovarsi e per tornare ad essere il vero trampolino di lancio del nostro Paese.
A partire dal 1970, si sono sviluppati due tipi di femminismo come risultato di un'inchiesta sulla condizione femminile nel Terzo Mondo, condotta dall'economista Ester Boserup. Sembrava che il contributo dato all'economia da parte delle donne fosse rilevante ma che le stesse non ne giovassero opportunamente. Da quel momento, il genere divenne per le organizzazioni internazionali come l'ONU, un elemento importante da non sottovalutare e spinse ad un femminismo di tipo WID (Women In Development), fortemente criticato come unilaterale poiché vedeva le donne beneficiarie degli aiuti ma non parte attiva nei processi di sviluppo del territorio. 
A sostituirlo fu l'approccio WAD (Women And Development), promosso durante la conferenza delle Nazioni Unite nel 1975. In questo caso, il processo di emancipazione della donna doveva avvenire conferendole l'accesso a posizioni sociali nei processi di sviluppo. Tuttavia, anche in questo caso, venne criticata la tendenza ad affermare il ruolo della donna attraverso processi esclusivamente formali. 
Alcuni studiosi sono concordi nel dire che, in ambito occupazionale e professionale, l'obiettivo reale è l'eliminazione della micro discriminazione, valorizzando le caratteristiche distintive della donna, la quale biologicamente presenta un corpo calloso più sviluppato e possiede inoltre più connessioni celebrali tra emisfero destro ed emisfero sinistro. Questo è un approccio tipico dell’empowerment: il termine deriva dal verbo inglese “to empower” e consiste in un percorso che porta un soggetto ad acquisire consapevolezza delle proprie capacità, possibilità e limiti. 
Questo processo può supportare il movimento femminista, ma non si intende quello dei primi anni, volto al raggiungimento del suffragio universale e della parità di genere, ma quello che riconosce l'inconsistenza della mera concessione del medesimo spazio conferito all'uomo nella società. L'empowerment non è un'alternativa temporanea per ovviare ad un problema, è piuttosto la scelta di perseguire un obiettivo in maniera sistematica e strutturata. Infatti il Cornell Group, nel 1989, parla di un processo costante ed intenzionale che comprende il rispetto reciproco, la riflessione critica e la partecipazione di gruppo. Attraverso queste caratteristiche, gli individui acquisiscono il controllo di risorse importanti. 
L'empowerment è, come afferma Claudia Piccardo, fondamentalmente azione collettiva, consapevolezza critica, mobilitazione di risorse ma soprattutto un nuovo modo di pensare il potere, che non è a somma zero, ma un poter dinamico che trova nella relazione, nella condivisione la sua massima espressione. 
L'unico modo per capire questa nuova concezione è quello di scomporre passo dopo passo il nostro modo abituale di pensare il potere: noi seguiamo lo schema di acquisizione e perdita e non quello di condivisione e crescita. L'obiettivo non è sicuramente quello di eliminare il potere poiché l'impotenza non permette l’azione ma, utilizzando principalmente l’approccio cooperativo tipico delle realtà pre statali, gli studi hanno dimostrato che la società non rischia di cadere nell'oppressione e nella disuguaglianza. 
La coesistenza del “potere su” e del “potere con” porta alla nascita del “relational power” ovvero il potere relazionale che ha capacità illimitate poiché strettamente legato alla conoscenza, la quale ci permette di pensare il mondo intelligentemente. Se conferito a più soggetti, il potere, inteso come autonomia, permette di ottenere una maggiore partecipazione al processo decisionale e, attraverso il confronto, maggiori possibilità di riuscita. 
È da chiedersi se questa nuova concezione possa applicarsi in modo efficace al mondo del lavoro dove la diversità di genere ha costituito un serio problema per la componente femminile. Alla base c’è un processo di riconoscimento non del tutto compreso. Riconoscere l’altro, il diverso da me, vuol dire in primis accettare la mia vulnerabilità come essere umano; in questo modo posso relazionarmi con lui/lei, stabilire una comunicazione e costruire la mia identità: ciò che siamo deriva dalla continua relazione che abbiamo con gli altri; le differenze sono potenziali che in campo lavorativo possono essere utilizzati per raggiungere grandi risultati. Le donne devono fare i conti con quello che possiamo definire il loro “destino biologico”: la possibilità di fare figli non prevede che vi sia una predisposizione mentale naturale di ogni donna a costruirsi una famiglia. La società vede nella donna una madre prima che una grande lavoratrice, una moglie prima di una donna di successo. Tuttavia, la possibilità di fare figli, di costruire una famiglia, non corrispondono alla volontà di ciascuna. Questi stereotipi hanno portato ad un processo di esclusione della figura femminile dal mondo del lavoro, l’hanno relegata ad un certo tipo di professioni collegate all’affettività, al prendersi cura di qualcuno. Al contrario, ci sono donne che hanno raggiunto grandi traguardi in ambiti una volta prettamente maschili come le forze armate, le imprese e le fabbriche. 
Applicare l’uguaglianza di genere in ambito lavorativo significherebbe per il McKinsey Global Institute “Rispondere ad un problema urgente e globale”. In 95 paesi analizzati, le donne generano attualmente solo il 37% del Pil pur essendo il 50% della popolazione in età da lavoro. Il lavoro nero per il 75% è svolto da donne e se si confrontano le varie aree del Mondo le differenze aumentano passando dal 17% di Pil generato dalle donne in India, al 18% del Medio Oriente, per arrivare al 40% dell’Europa, del Nord America e dell’Asia centrale. Questa analisi ha preso in considerazione circa quindici indicatori come l’uguaglianza nel lavoro, nella società, la protezione legale, l’accesso a posizioni di leadership, l’istruzione e l’inclusione digitale. Lo studio dimostra che la parità di genere nel mondo del lavoro è realizzabile solo se si educano gli individui a questa, modificando atteggiamenti e sgretolando convinzioni errate riguardo il ruolo delle donne nella società. Inoltre, l’uguaglianza di genere in ambito lavorativo ridurrebbe il divario con i Paesi più sviluppati portando ricchezza a quelli meno sviluppati. La crisi economica, che ha investito anche il nostro Paese, ha portato la componente femminile precedentemente non attiva a livello lavorativo a trovare un impiego per sostenere la propria famiglia e questo spesso porta ad assumere posizioni poco qualificate. Secondo l’Ufficio Statistico dell’Unione Europea (Eurostat), nel nostro Paese, la percentuale di donne che lavora si attesta al 49,9% a fronte del 69,8% di uomini; questa è la realtà che colloca l’Italia agli ultimi posti nella classifica dei Paesi europei, nonostante l’articolo tre della Costituzione affermi che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Valeria Fedeli, Ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca afferma che il genere di appartenenza condiziona ancora pesantemente le opportunità economiche e di carriera; a questo proposito, la Commissione sui diritti delle donne del Parlamento Europeo ha stimato che, nonostante in Europa il numero di donne con un titolo di laurea stia crescendo in media ad un tasso maggiore rispetto quello degli uomini, le laureate in materie scientifiche e tecnologiche rappresentano ancora solo l'1,1%. 

I dati riescono a farci comprendere la gravità del fenomeno ma è importante riconoscere che il problema è culturale e finché non verrà sradicato continueremo a perdere le opportunità che un lavoro basato sulla parità di genere può rappresentare, dando un contributo concreto alla crescita del nostro Paese, dell’Europa e del Mondo.





Essere donne, a volte, aiuta!



Giulia era una ragazza alta, magra, con le curve al posto giusto e con uno sguardo accattivante. I suoi occhi grigio-verdi richiamavano l’attenzione di parecchi uomini. Lei sapeva di essere bella e attraente, con un’intelligenza sopra la media. Giulia aveva 30 anni e non conosceva la parola “modestia”. Camminava per strada a testa alta, vestita sempre all’ultima moda e con abiti rigorosamente firmati. Era brava negli studi, su questo non si poteva discutere. Nella sua carriera scolastica aveva sempre ottenuto il massimo dei voti con il minimo sforzo possibile ed era proprio per questo che si sentiva così sicura e piena di sé. Viveva a Torino, in un grazioso appartamento vicino al parco del Valentino. Lavorava come giornalista presso una emittente locale. Se ripensava come era entrata in quegli studi, a dire il vero, un po’ si vergognava. Lo aveva saputo da Luca, un suo compagno di università che aveva già sostenuto il colloquio. Il giorno stesso Giulia si era fiondata negli studi tutta tirata a puntino e si era fatta ricevere. Aveva avuto la fortuna di parlare direttamente con il direttore, un uomo affascinante, sui quarant’anni, di bell’aspetto e molto cordiale. Non si era neanche dovuta sforzare molto per richiamare la sua attenzione. Lui, infatti, pendeva completamente dalle sue labbra. Ci era andata pesante con il trucco e con l’abbigliamento. Il giorno seguente seppe che il lavoro era
suo
!



I primi tempi furono noiosi. Il suo compito consisteva nell’osservare Giancarlo, un ragazzo della sua età che ambiva a condurre il nuovo programma culinario che sarebbe andato in onda a breve e che si prodigava a svolgere ogni mansione affidatagli con dovizia di particolari, con una precisione maniacale. Era il pupillo di Giacomo, il direttore il quale, ogni giorno, gli affidava incarichi sempre più interessanti. Giulia, nonostante trovasse barboso stare appresso al “primo della classe” doveva fingere un entusiasmo che proprio non le apparteneva. Solo così avrebbe potuto competere con lui. Ogni occasione era buona per avvicinare il direttore e proporgli dei cambiamenti magari sui testi dei documentari ai quali stava lavorando, argomenti interessanti per i servizi del telegiornale. Le sue idee spesso venivano accettate e valutate con estrema attenzione. Giulia, poi, partecipava con ardore a tutte le riunioni di redazione, anche se la sua presenza non era richiesta, stando attenta a essere sempre provocante, sexy anche solo con lo sguardo, sicura di ammaliare con questi suoi modi di fare il direttore. E fu così che, quando giunse il momento di mettere a punto tutte le fasi per registrare “Piatti tipici del Piemonte”, la trasmissione in sei puntate che sarebbe andata in onda in autunno, Giacomo decise di mettere alla conduzione Giulia, l’ultima arrivata, sicuro che con il suo fascino, il suo sguardo magnetico e le sue curve da mozzare il fiato, avrebbe mandato lo share alle stelle. Giancarlo, fino a quel momento certo che il programma sarebbe stato suo, si infuriò con il direttore, accusandolo di essersi fatto abbindolare da una bella donna, senza alcuna esperienza diretta in video, mentre lui aveva alle spalle già qualche trasmissione sportiva e sapeva come comportarsi davanti a una telecamera. Quasi gli vennero le lacrime agli occhi ripensando all’impegno che aveva messo a studiare quella trasmissione, a inventare una modalità di conduzione originale, per distinguerla da altri programmi simili. Venne licenziato in tronco senza possibilità di replicare. Se ne andò sbattendo la porta, dopo aver guardato la ragazza con occhi che sprizzavano odio puro. Giulia non batté ciglio. Era arrivata dove voleva!




Fine delle trasmissioni




Da quando Camilla aveva messo piede per la prima volta in quella redazione, col fiato corto, nonostante i suoi ventidue anni, per tutti i gradini che aveva dovuto affrontare, non pensava più ad altro. Avrebbe potuto prendere l’ascensore e fare il suo ingresso da diva, direttamente al settimo piano della redazione di Telesqualo, la Tv locale più seguita della sua città, ma aveva preferito farsela a piedi. Gradino dopo gradino prendeva coraggio e pregustava il sapore della vittoria: stava realizzando il suo sogno, lavorare in una emittente televisiva. Era telegenica: occhi ipnotici, blu e profondi. I capelli biondi, mossi, le incorniciavano poi le incorniciavano un viso di porcellana, dai lineamenti regolari e delicati. Le labbra e la voce erano estremamente sensuali. Al suo primo ingresso in redazione Camilla ebbe una lieve vertigine: non aveva mai visto tanti uomini, giovani e belli, in un colpo solo. Le avevano detto che il caporedattore, Vittorio Reggi, era uno “sciupafemmine” irresistibile. Si guardò intorno, curiosa di vedere da vicino le donne dell’harem di uno degli uomini più desiderati e apprezzati della città. Erano tutte molto curate, un trucco impeccabile, neppure un ricciolo fuori posto, scollature abbondanti e tacchi alti. Diede uno sguardo al gabbiotto del capo, ma restò delusa: era vuoto. Le venne incontro un ragazzotto occhialuto, aria alla Clark Kent, e per questo soprannominato Superman. Era il vice-caporedattore e la stava aspettando. La scortò, tra gli occhi curiosi e un po’ famelici dei suoi nuovi colleghi. Contò quindici giornalisti. Quindici uomini. Era arrivata agli Spettacoli. “Superman” il vicecapo, dotato di una erre moscia che lo rendeva più sexy che credibile, l’aveva consegnata a Ginevra Gentilini, la responsabile del settore in cui Camilla avrebbe lavorato fino a ottobre: avrebbe avuto quattro mesi per farsi notare e assumere per sempre. Ginevra la accolse con una nota di agenzia tra le mani e nessun sorriso. “Benvenuta. Il capo non c’è oggi - le disse senza troppi complimenti – e cominci subito. Quella è la tua scrivania. Tieni, è arrivata questa nota dell’Ansa. Fai un servizio da sei minuti. Questi sono artisti famosi, si esibiscono per tutta la settimana. Intervistali. Lavorerai con me, per Dietro le Quinte, che va in onda il sabato, dopo il tg delle tredici. Seguirai qualche spettacolo, la sera.” Camilla si mise subito all’opera. “Chi c’è alla Cultura?” – chiese. “Una collega che oggi è di corta” – rispose Ginevra, senza distogliere gli occhi dal pezzo che stava scrivendo. “Di corta vuol dire che è nel suo giorno libero” – precisò, vedendola un po’ smarrita. “La conoscerai domani. E’ brava più di tutti quelli lì messi insieme – disse indicando i colleghi dello Sport e dell’Economia - però è una donna, quindi fa la Cultura”. Camilla finse di non cogliere l’amarezza delle parole di Ginevra: in quel momento faceva ciò che desiderava, la giornalista televisiva. Il suo sogno si stava realizzando, anche se le era costato la rottura con il fidanzato, Marco, contrario a una futura moglie giornalista. Col nuovo amore era anche peggio: Federico la osteggiava apertamente. “Quello non è un lavoro per donne” – le ripeteva lui come un mantra. Camilla lo sapeva, ma amava quella professione. La competizione in Tv era alta e ai colleghi uomini il successo arrideva più facilmente. Le donne non mancavano, ma erano relegate a ruoli minori. Federico era diventato nervoso, geloso del fonico e dell’operatore, soprattutto dell’operatore, che seguiva Camilla ovunque. A metà settembre cominciò il “toto-assunzioni”. Il suo capo l’aveva notata e adocchiata. Camilla sperava di stabilizzarsi in redazione. Sapeva bene però che, tra lei e un uomo, la Direzione avrebbe scelto il collega maschio. Tuttavia, sperava. Quel giorno, un venerdì pomeriggio, contratto in scadenza e l’ultimo pezzo per la rubrica da chiudere, il capo dei capi, vedovo e sexy, le appoggiò una mano sulla spalla. “Sto andando a casa. Raggiungimi, ti devo parlare” – le disse Vittorio perentorio. Camilla si innervosì: subiva il fascino di Reggi. Chiuse il suo servizio e uscì. Vittorio la stava aspettando, vicino alla sua auto. “Sali” – fece lui deciso, aprendole lo sportello dell’Audi nera, e lei non poté che obbedire. In pochi minuti arrivarono su un’altura panoramica, deserta. Lui spense il motore dell’auto e accese il suo. Le si avvicinò e cominciò a baciarla. “Potrei farti assumere – farfugliava confuso, alitandole sul collo – se tu fossi più gentile con me. Avanti, che aspetti? Vieni qui, avvicinati”. Camilla si divincolò e scappò dall’auto più velocemente che poté. Arrivò a casa e pianse. Vittorio le stava offrendo il lavoro dei suoi sogni, ma un prezzo troppo alto da pagare. Sentì il rumore dei sogni che si infrangono, come di vetro rotto. La mattina dopo Camilla era di pessimo umore. Ginevra Gentilini l’accolse con un calice di champagne. “Che è quella faccia? Ti è morto il gatto? Sorridi – le disse con un tono ironico - brindiamo ad Andrea, appena assunto a vita dalla nostra emittente”. Camilla guardò il gabbiotto del capo. Vittorio non c’era. “E a cosa dobbiamo questa assunzione? – chiese a mezza bocca alla Gentilini – quale servizio speciale lo ha innalzato al di sopra di tutti?” Ginevra la prese sottobraccio e le disse piano che non c’era alcun merito particolare. Era soltanto un uomo.

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