WRITING- DIFFERENZE DI GENERE NELL'AMBIENTE DI LAVORO : "OPPORTUNITÀ O DISCRIMINAZIONE?" I RACCONTI DA VOTARE


Opportunità e genere: quale uguaglianza?



“È dal lavoro stesso che le persone costruiscono la propria dignità e la propria libertà, e non certo dalla negazione dei propri diritti e della propria identità” 
Valeria Fedeli, Ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca

“Uomini e donne sono uguali”, questa è la frase che sentiamo spesso gridare dai movimenti di protesta a sfondo femminista sempre più numerosi e che rivendicano anni di abusi, violenze e silenzio di un mondo al maschile. Negli anni, le proteste hanno sempre fatto leva sul principio di uguaglianza considerando le differenze come qualcosa di negativo; per questo oggi sembra necessario chiedersi se le donne debbano essere realmente uguali agli uomini per avere le loro stesse opportunità in ambito lavorativo. 
Le differenze sono sempre un qualcosa di negativo? Perché è così sbagliato distinguersi dagli uomini in qualcosa? perché l'uomo è il solo modello al quale fare riferimento? Perché le donne devono essere uguali a qualcuno e non a sé stesse?
Queste, come molte altre domande, aleggiano su di una società in continuo cambiamento, dove il mondo del lavoro diviene sempre più impermeabile e necessita di reali cambiamenti per rinnovarsi e per tornare ad essere il vero trampolino di lancio del nostro Paese.
A partire dal 1970, si sono sviluppati due tipi di femminismo come risultato di un'inchiesta sulla condizione femminile nel Terzo Mondo, condotta dall'economista Ester Boserup. Sembrava che il contributo dato all'economia da parte delle donne fosse rilevante ma che le stesse non ne giovassero opportunamente. Da quel momento, il genere divenne per le organizzazioni internazionali come l'ONU, un elemento importante da non sottovalutare e spinse ad un femminismo di tipo WID (Women In Development), fortemente criticato come unilaterale poiché vedeva le donne beneficiarie degli aiuti ma non parte attiva nei processi di sviluppo del territorio. 
A sostituirlo fu l'approccio WAD (Women And Development), promosso durante la conferenza delle Nazioni Unite nel 1975. In questo caso, il processo di emancipazione della donna doveva avvenire conferendole l'accesso a posizioni sociali nei processi di sviluppo. Tuttavia, anche in questo caso, venne criticata la tendenza ad affermare il ruolo della donna attraverso processi esclusivamente formali. 
Alcuni studiosi sono concordi nel dire che, in ambito occupazionale e professionale, l'obiettivo reale è l'eliminazione della micro discriminazione, valorizzando le caratteristiche distintive della donna, la quale biologicamente presenta un corpo calloso più sviluppato e possiede inoltre più connessioni celebrali tra emisfero destro ed emisfero sinistro. Questo è un approccio tipico dell’empowerment: il termine deriva dal verbo inglese “to empower” e consiste in un percorso che porta un soggetto ad acquisire consapevolezza delle proprie capacità, possibilità e limiti. 
Questo processo può supportare il movimento femminista, ma non si intende quello dei primi anni, volto al raggiungimento del suffragio universale e della parità di genere, ma quello che riconosce l'inconsistenza della mera concessione del medesimo spazio conferito all'uomo nella società. L'empowerment non è un'alternativa temporanea per ovviare ad un problema, è piuttosto la scelta di perseguire un obiettivo in maniera sistematica e strutturata. Infatti il Cornell Group, nel 1989, parla di un processo costante ed intenzionale che comprende il rispetto reciproco, la riflessione critica e la partecipazione di gruppo. Attraverso queste caratteristiche, gli individui acquisiscono il controllo di risorse importanti. 
L'empowerment è, come afferma Claudia Piccardo, fondamentalmente azione collettiva, consapevolezza critica, mobilitazione di risorse ma soprattutto un nuovo modo di pensare il potere, che non è a somma zero, ma un poter dinamico che trova nella relazione, nella condivisione la sua massima espressione. 
L'unico modo per capire questa nuova concezione è quello di scomporre passo dopo passo il nostro modo abituale di pensare il potere: noi seguiamo lo schema di acquisizione e perdita e non quello di condivisione e crescita. L'obiettivo non è sicuramente quello di eliminare il potere poiché l'impotenza non permette l’azione ma, utilizzando principalmente l’approccio cooperativo tipico delle realtà pre statali, gli studi hanno dimostrato che la società non rischia di cadere nell'oppressione e nella disuguaglianza. 
La coesistenza del “potere su” e del “potere con” porta alla nascita del “relational power” ovvero il potere relazionale che ha capacità illimitate poiché strettamente legato alla conoscenza, la quale ci permette di pensare il mondo intelligentemente. Se conferito a più soggetti, il potere, inteso come autonomia, permette di ottenere una maggiore partecipazione al processo decisionale e, attraverso il confronto, maggiori possibilità di riuscita. 
È da chiedersi se questa nuova concezione possa applicarsi in modo efficace al mondo del lavoro dove la diversità di genere ha costituito un serio problema per la componente femminile. Alla base c’è un processo di riconoscimento non del tutto compreso. Riconoscere l’altro, il diverso da me, vuol dire in primis accettare la mia vulnerabilità come essere umano; in questo modo posso relazionarmi con lui/lei, stabilire una comunicazione e costruire la mia identità: ciò che siamo deriva dalla continua relazione che abbiamo con gli altri; le differenze sono potenziali che in campo lavorativo possono essere utilizzati per raggiungere grandi risultati. Le donne devono fare i conti con quello che possiamo definire il loro “destino biologico”: la possibilità di fare figli non prevede che vi sia una predisposizione mentale naturale di ogni donna a costruirsi una famiglia. La società vede nella donna una madre prima che una grande lavoratrice, una moglie prima di una donna di successo. Tuttavia, la possibilità di fare figli, di costruire una famiglia, non corrispondono alla volontà di ciascuna. Questi stereotipi hanno portato ad un processo di esclusione della figura femminile dal mondo del lavoro, l’hanno relegata ad un certo tipo di professioni collegate all’affettività, al prendersi cura di qualcuno. Al contrario, ci sono donne che hanno raggiunto grandi traguardi in ambiti una volta prettamente maschili come le forze armate, le imprese e le fabbriche. 
Applicare l’uguaglianza di genere in ambito lavorativo significherebbe per il McKinsey Global Institute “Rispondere ad un problema urgente e globale”. In 95 paesi analizzati, le donne generano attualmente solo il 37% del Pil pur essendo il 50% della popolazione in età da lavoro. Il lavoro nero per il 75% è svolto da donne e se si confrontano le varie aree del Mondo le differenze aumentano passando dal 17% di Pil generato dalle donne in India, al 18% del Medio Oriente, per arrivare al 40% dell’Europa, del Nord America e dell’Asia centrale. Questa analisi ha preso in considerazione circa quindici indicatori come l’uguaglianza nel lavoro, nella società, la protezione legale, l’accesso a posizioni di leadership, l’istruzione e l’inclusione digitale. Lo studio dimostra che la parità di genere nel mondo del lavoro è realizzabile solo se si educano gli individui a questa, modificando atteggiamenti e sgretolando convinzioni errate riguardo il ruolo delle donne nella società. Inoltre, l’uguaglianza di genere in ambito lavorativo ridurrebbe il divario con i Paesi più sviluppati portando ricchezza a quelli meno sviluppati. La crisi economica, che ha investito anche il nostro Paese, ha portato la componente femminile precedentemente non attiva a livello lavorativo a trovare un impiego per sostenere la propria famiglia e questo spesso porta ad assumere posizioni poco qualificate. Secondo l’Ufficio Statistico dell’Unione Europea (Eurostat), nel nostro Paese, la percentuale di donne che lavora si attesta al 49,9% a fronte del 69,8% di uomini; questa è la realtà che colloca l’Italia agli ultimi posti nella classifica dei Paesi europei, nonostante l’articolo tre della Costituzione affermi che “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Valeria Fedeli, Ministra dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca afferma che il genere di appartenenza condiziona ancora pesantemente le opportunità economiche e di carriera; a questo proposito, la Commissione sui diritti delle donne del Parlamento Europeo ha stimato che, nonostante in Europa il numero di donne con un titolo di laurea stia crescendo in media ad un tasso maggiore rispetto quello degli uomini, le laureate in materie scientifiche e tecnologiche rappresentano ancora solo l'1,1%. 
I dati riescono a farci comprendere la gravità del fenomeno ma è importante riconoscere che il problema è culturale e finché non verrà sradicato continueremo a perdere le opportunità che un lavoro basato sulla parità di genere può rappresentare, dando un contributo concreto alla crescita del nostro Paese, dell’Europa e del Mondo.

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